Qui MAGAZINE - Anno IV n.4 - maggio 2003
a cura di Rocco ZANI



IL MELO E IL PESCO, CHE SEGNANO IL CONFINE DEL PICCOLO GIARDINO, SEMBRANO
attendere tempi migliori per pavoneggiare i riflessi della biacca e del rosa. Il sole “malato” dei mesi scorsi ne ha preservato il sonno e l’incanto. E’ un giardino di ombre quello che delimita, da un lato, lo studio collinare di Viviana Faiola. Un giardino “strappato” al pendio rugoso, una sorta di zattera ben salda che muta la rotta per aliti di vento brumoso o per squarci di rubino al tramonto. E’ terra umida e sanguigna che rifiuta l’ordine rassicurante di filari intensi o di trame fiorite. Tutto nasce per consumazione sommaria, per sodalizio di umori stagnanti, per ludiche battaglie di colore.


I luoghi che abitano raccolgono, assai spesso, le tracce dense del nostro incedere; come se anche le nostre azioni, gli impulsi, il piacere o lo struggimento, si ritagliassero addirittura nella fisicità della misura, nelle geometrie originarie. La “zattera” domina una valle che corre al mare per piani d’ocra ferrosa o per sacche di verdi innocenti; per tracce di tetti che “ascoltano il vento.
Tutto ciò scruta Viviana Faiola dal suo osservatorio per nulla occasionale.
Tutto questo appartiene alla sua memoria visiva, ma direi, soprattutto, familiare ed emozionale. D’altra parte il percorso artistico di questa pittrice pare segnato – o marcato – da una sorta di naturale equazione nella quale il “luogo quotidiano” determina, ammonisce, alimenta ogni cifra formale e cromatica.
I dipinti dell’esordio, come converrebbe ad una dialettica convenzionale, narrano di città fortificate, gravate da strati sanguigni di mura sbilenche, fumose, violate. Emblemi di una decadenza metropolitana vissuta come male oscuro, epidermico irrimediabile. Erano gli anni di una “quotidianità” irritante, grassa, probabilmente confusa. Viviana Faiola dipinse la città come contenitore rigurgitante di umori antichi di sopraffazioni, resoconti popolani, di empietà spicciola del potere.Tutto racchiuso entro le mura come repertorio di affanni e inquietudini. Ma soprattutto come irritazione, asfissia, rinuncia. Finanche i cieli di cobalto, che colmano le spazialità superflue della tela, indicano quanto doloroso irrisolto fosse – in quel tempo – il rapporto dell’artista con il “modernismo irriverente” di una certa “metropolitanità”: quella incapace di osservare e riflettere; quella cresciuta per miti sotterranei; quella, ancora gravida di una monumentale “solitudo”. Il realismo pittorico di quei dipinti accelerava l’urto visivo rendendolo inverosimile qualsiasi proponimento di mediazione.
Ma era quello l’esordio, “come converrebbe ad una dialettica convenzionale” Con le frustrazioni, le attese e gli accanimenti che di solito affollano la temporalità giovanile.
Il melo e il pesco segnano ora, tra rovi inattesi, una sorta di “nuova frontiera”. Non già di fuga o di “ritirata” bensì di scelta indispensabile per una riscrittura personale e pittorica della propria esistenza. L’abbandono di una definizione marcatamente realistica per segnali e cifre dall’accento informale seguono di fatto il tentativo di ripristinare, ma soprattutto di identificare, una “dimensione libertaria” dell’incedere. Ecco allora che le geometrie remote, sorrette comunque da una “figurazione palese”, vanno via via stemperandosi a favore di “traiettorie” indistinte, prolungate, magiche.
<< Viviana Faiola sente molto la necessità di intervento e di traduzione gestuale libera, mirando solo a resistere al naufragio nel colore, a frapporre all’ inghiottimento nel magma indistinto tensioni verso l’alto, per cercare di capire, di focalizzare e di comprendere>>. Così scrive di lei Giorgio Segato rilevando ancora il senso umorale, liberatorio, passionale, della pittura recente di questa autrice.
Viviana Faiola sembra “rinnovare” sulla tela una nuova e più intima coscienza, come se i luoghi dilatati posti sulla rotta della sua “zattera” indicassero a lei un sillabario inedito, vivo, martellante. E l’orizzonte perso, o restituito all’alba dai venti notturni, cela racconti non ancora noti, appena sussurrati. Perché all’interno di quello “spazio esterno”. Dove perfino i confini smarriscono la loro vincolante presenza, l'artista sembra scoprire un approdo di inesauribili opportunità. sono quelle dettate dalla propria “storia”, dalla propria segreta natura che, dal “dominio dell’appartenenza”, sembra trarre ogni rimedio espressivo. le tele della piena maturità narrano di mulinanti progressivi – come il cespo selvatico che amoreggia al sole di giugno – di grumi rossastri “piantati” – come cuori martellanti – al centro del racconto cromatico: Campiture attraversate da rapide scie di cadmio e di giallo radioso, autonome nel loro andare, finalmente affrancate dai reticoli esausti della conformità quotidiana. Questa è la pittura di Viviana Faiola, senza conciliazioni rincuoranti; naturale, vitale, forse irriverente.
Il melo e il pesco, nel frattempo, fermi ai lati della “zattera” , sembrano pedinare ogni mutamento repentino ed ascoltare, sommessi, le “voci” di una pittura che appartiene anche al loro tempo.


 

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