Dalla presentazione della mostra della mostra NOMADISMI SCROMATICI
a cura di Rocco Zani


E’ un periodare stanco - talvolta annoiato – quello che accompagna le ore trascorse in provincia. Un ritmo inconsueto che avvolge le cose e gli umori. Eppure accade che questo limite fatale celi appigli più generosi e salutari, soprattutto per ridefinire - o riepilogare – costantemente talune conoscenze. Ecco allora che lo “sconfinamento territoriale” – con il suo abituale refrain – induce a percorrenze cicliche, ad avanzare, puntualmente, nuovi, più dettagliati bilanci. Sugli uomini e sulle cose.
La primavera è un sentire intimo, ovvero il prologo di inediti accadimenti.
Come se gli studi degli artisti amici s’aprissero al curiosare ingordo dell’interlocutore. Per richiudersi poi – con riverenza arcana – ai venti aspri dell’autunno.
A questo penso, risalendo per tornanti lievi, le colline delle antiche scorrerie normanne con i propiziatori accessi del saraceno ingordo. Come in una sorta di lucida caccia al tesoro, gli ultimi precari segnali, preannunciano l’epilogo del viaggio breve. La casa-studio di Viviana Faiola è un aquilone ancorato. E la piccola loggia restituisce al visitatore un paesaggio inconsueto. E’ il sole – talvolta la luna – a dettare le prospettive della valle, a misurare – tra ombre di granito e vanità della luce – le distanza. A celare le case o a rischiarare le acque improbabili.
Sulle pareti quadri affidati ai numeri del tempo. I due grandi dipinti non traggono in inganno. Raffigurano, entrambi, città “iconoclastiche”. Le mura di cinta strette a tal punto da immaginare un riflusso verticale delle fortezza. Una sovrapposizione rigorosa di metodi, di certezze rassicuranti, di memorie. Il cielo è un impasto di temperamenti: l’ocra e il cadmio hanno già vinto la loro guerra. Ma sono – forse – città della rinuncia, minuscoli scrigni in cui tutela, per temporalità ignote, i segni di quell’appartenenza.
Ma l’abbandono della “fortezza” è – anche- l’abbandono della figurazione originaria, quel sillabario di suggerimenti fatto di accorte manipolazioni dell’idea.
Il percorso di Viviana Faiola sembra aver deviato – ma il prologo è pur sempre – oggi – di una centralità narrativa “evidente” trascina lungo la consapevolezza di un nuovo ruolo propositivo. Il “segno”, un tempo necessario per i confinamenti – o per le inversioni – del racconto, è oggi traccia labile e libertaria, armonizzata cioè, nel suo bipolarismo descrittivo.
“Nessuna immagine” ha scritto Arturo Schwarz “ può essere del tutto indipendente dal macrocosmo esterno e dal microcosmo interno”. Mi pare garante, tutto ciò, delle componenti passionali – e di quelle rituali – che sostengono la pittura della Faiola. Le grandi campiture forniscono segnali inediti. La prospettiva è un preambolo occasionale suggerito più da un dimensionalismo procurato che da una necessità linguistica. E’ lo “strappo cromatico” a definire un sostentamento prioritario e definitivo. E’ quello che assegna alla “Pittura” una valenza assolutistica, debordante, compiuta.
E in quel primato intimamente ricorso, il “reale” sembra sopravvivere nella sua opulenta e irriverente trasfigurazione.
Il rito e la passione, dunque, radunati nel “luogo pittorico”. E da qui proiettati nel periodare della storia.



 

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